“Cara, bastava che chiedessi”

Al tempo del mio primo lavoro, sono stata invitata a cena da una delle mie colleghe. Quando sono arrivata lei stava cercando di far mangiare i propri figli, mentre preparava il nostro pasto. “Accomodati, prendi un bicchiere, io arrivo”.
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All’improvviso la padella si è messa a traboccare. E tutto è finito per terra. “Ohlala che disastro, ma che cosa hai fatto?”
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“Come che cosa ho fatto? Ho fatto TUTTO, ecco che cosa ho fatto!”
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“Ma… bastava che chiedessi! Ti avrei aiutata!”
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“Bastava che chiedessi” (“Fallait demander”) è il titolo di un fumetto della blogger femminista francese Emma, che ha avuto un grandissimo successo in Francia, è stato ripreso e tradotto da diversi giornali internazionali (qui, in inglese) e che, con altre storie, è finito in un libro intitolato Un autre regard, sulla cui copertina c’è un occhio-vulva.
Emma ha 36 anni, si è laureata in ingegneria informatica («Capii subito che i miei colleghi avevano difficoltà a ricevere ordini da una donna e alla fine ero io a non trovarmi a mio agio tra i loro atteggiamenti sessisti»), si definisce una «femminista inclusiva e rivoluzionaria» e dice che i suoi disegni hanno un contenuto politico. Emma parte dalle situazioni che ha vissuto di persona, come la violenza ostetrica, il sessismo sul posto di lavoro, la vita dei migranti nelle banlieue o il gaslighting, «questo modo di aggredire una persona e di farle credere che è lei ad aver reagito male». E disegna situazioni in cui ad essere protagoniste sono soprattutto le donne: «Le condizioni delle donne sono migliorate solo in apparenza» ha spiegato in diverse interviste «ma esistono discriminazioni che non si vedono come il “corsetto invisibile” (che richiede di prestare attenzione a ciò che si indossa o a come ci si comporta) e il “carico mentale”».
Ecco. “Bastava che chiedessi” racconta la “charge mentale”. Qualche giorno fa, sedute su una panchina, io e Ada ci stavamo dicendo a vicenda quanto eravamo stanche. Lei è un’amica che vive a Parigi, insegna all’università, fa anche la traduttrice, ha due figli piccoli, per la maggior parte della settimana è sola e senza un sostegno familiare. E se ne esce dicendo: sai che in Francia hanno dato un nome a questa cosa? “Charge mentale”, appunto, che è diventato il modo per identificare immediatamente non un generico stress da lavoro, ma il peso di tutte quelle acrobazie cerebrali, invisibili, costanti e sfiancanti che portano, per il benessere di tutti e il funzionamento efficace della casa, generalmente le donne e ancor più le donne che sono anche madri. Ce l’ho anch’io. Decisamente.
Per me l’esistenza di questo carico mentale diventa lampante quando decido di dedicarmi a un lavoro semplice come per esempio sparecchiare la tavola. Comincio con il prendere una cosa da sistemare, ma lungo la strada inciampo in un asciugamano sporco che vado a mettere nel cesto della biancheria, che trovo pieno. Vado subito a fare una lavatrice…
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…e incappo nel sacchetto della verdura che deve essere messa al fresco. Mettendo a posto la verdura mi ricordo che bisogna aggiungere la senape alla lista delle cose da comprare. E così via. Riuscirò finalmente a sparecchiare la tavola dopo due ore terribili.
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Se chiedo al mio compagno di sparecchiare la tavola, lui metterà solo a posto la tavola. L’asciugamano resterà per terra. Le verdure marciranno sul ripiano e non avremo la senape per il pasto della sera.
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La “charge mentale” non corrisponde al fare tutto, cioè all’esecuzione pratica, ma al pensare a tutto. Consiste nell’avere costantemente, in un angolo della propria testa, la preoccupazione e il pensiero delle mansioni domestiche ed educative, anche nel momento in cui non le si sta concretamente eseguendo. È insomma una specie di vigilanza costante e pervasiva, è un lavoro di gestione, di pianificazione e di anticipazione che spesso ci si trova a fare completamente da sole.
“Potresti tirar fuori il biberon dalla lavastoviglie quando avrà finito?” E poi, al primo risveglio notturno, la lavastoviglie è aperta, giusto il biberon è stato tirato fuori e il resto dei piatti non si è mosso da lì.
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“Non hai fatto i piatti?” “Non me l’hai chiesto” (come se la montagna di piatti sporchi non fosse già un’evidenza)
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Nel chiedere di chiedere in cosa serve un aiuto, dice Emma, «i nostri compagni si rifiutano di prendere la loro parte di carico mentale». E non c’è niente di biologico o di innato in tutto questo (una donna non nasce con la passione sfrenata per la tavola da sparecchiare). Però cresciamo in un mondo in cui spesso abbiamo visto le nostre madri farsi carico dell’intera gestione della casa e in cui i padri vi hanno preso parte, a volte, come meri esecutori, e in un sistema in cui fin da piccoli viene insegnata una divisione stereotipata dei ruoli (che ha conseguenze negative sia sulle donne che sugli uomini).
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Emma cita, tra i vari problemi, anche il congedo parentale dei padri, molto più breve rispetto a quello delle madri, che contribuisce – anche quando i figli sono cresciuti – a una specie di inadeguatezza deresponsabilizzante:
“Ciao, sono io. Cosa le dò da mangiare?”
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Bene. So già che qualcuno mi dirà: “Non è vero, io faccio la metà delle cose di casa”
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Eh, mi viene da dire, tanto meglio! (Ma confermate comunque la cosa con la vostra compagna). Che sia così a casa vostra non cambia di molto il problema: statisticamente sono ancora in gran parte le donne a gestire il focolare.
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Secondo l’INSEE (l’ISTAT francese) le donne dedicano più tempo degli uomini alla casa facendosi carico del 64 per cento delle faccende domestiche e del 71 per cento della gestione dei figli. E se lo scarto, con il tempo, è diminuito è perché chi se lo può permettere, dice Emma, ha esternalizzato il lavoro domestico delegandolo molto spesso a donne immigrate e precarie (“Non si può davvero dire che sia una buona soluzione”). In Italia le cose non cambiano, anzi: i dati dicono che tra i 25 e i 64 anni il lavoro familiare rappresenta il 21,7 per cento della giornata media delle donne (5 ore e 13 minuti), contro il 7,6 per cento di quella degli uomini (1 ora e 50 minuti). Ma sono dati che, ovviamente, non tengono conto della “charge mentale”.
Il concetto di “charge mentale” non se l’è inventato Emma, è stato introdotto negli anni Ottanta dalla sociologa francese Monique Haicault in un articolo intitolato “La gestione ordinaria della vita in due”. Secondo Sandra Frey, sociologa e politologa specialista nelle questioni di genere, la “charge mentale” è stata invece inventata più tardi, negli anni Novanta quando un’altra sociologa, Danièle Kergoat, esperta di divisione sessuale del lavoro, cominciò ad occuparsi delle rivendicazioni del movimento delle infermiere per il riconoscimento della loro attività come lavoro qualificato. Il concetto ha poi continuato a circolare ed è rientrato in modo molto divertente nel dibattito pubblico (francese) grazie ai fumetti di Emma (che sono molto politici e molto poco assimilabili a una sterile “lamentatio”).
La “charge mentale” è difficile da quantificare e anche da ripartire all’interno di una coppia. Sandra Frey spiega che è qualcosa di invisibile e che è l’infrastruttura del sessismo nella nostra società: è cioè, allo stesso tempo, causa e conseguenza dell’attribuzione di determinati ruoli sociali in base al genere. Quando è necessario andare a recuperare un bambino malato a scuola, ad esempio, generalmente la scuola chiama la madre. Qualcuno, su qualche giornale francese, ha fatto notare che potrebbe “non essere solo colpa degli uomini” e che il farsi carico di tutto – basato sul pensiero che “se non lo faccio io non lo farà nessuno” o su una presunta incompetenza maschile – ha in qualche modo innescato un meccanismo di infantilizzazione. «È dunque necessario che le donne mollino il peso. Non è perché le cose non sono fatte a modo loro che sono fatte male. E poi, più il loro compagno farà, meglio farà: ciascuno deve metterci della buona volontà» dice ad esempio Christine Castelain-Meunier, sociologa del Centro nazionale di ricerca scientifica, la più grande organizzazione di ricerca pubblica in Francia.
Il suggerimento finale di Emma è invece quello di crescere “i nostri figli il più lontano possibile dagli stereotipi, per offrire loro un futuro più equo del nostro”. 
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